Ci sono sogni che sembrano impossibili, destinati a rimanere tali. L’ascensione al Nanga Parbat in inverno, senza ossigeno, è stato per Stefano Moro uno di questi. Per anni ha tentato, ha fallito più volte, ha sfidato la montagna e le sue regole. Poi, quando sembrava solo un altro tentativo destinato a fallire, l’imprevisto ha cambiato tutto. Il sogno si è avverato.
Ma il vero insegnamento di Moro è un altro: anche il fallimento può essere una vittoria. Tornare indietro, accettare di rinunciare, non è una sconfitta. È consapevolezza. Dopo mesi di allenamenti, giorni di sacrifici e condizioni proibitive, decidere di fermarsi può essere la scelta più difficile, ma anche la più saggia. Perché le montagne restano lì, nessuno le porta via.
La storia dell’alpinismo è piena di grandi imprese, ma anche di competizioni che si sono trasformate in tragedie, rivalità che hanno lasciato segni profondi. Moro racconta le polemiche con Daniele Nardi, le controversie dopo la scomparsa di Zavka sul K2. E poi ci sono le accuse che hanno colpito giganti come Reinhold Messner, per la morte del fratello, o Walter Bonatti, vittima di critiche feroci fino alla sua riabilitazione solo molti anni dopo.
Giudicare, da dietro una scrivania, è fin troppo facile. Ma a ottomila metri, quando il freddo toglie lucidità e l’aria è un bene raro, ogni decisione può fare la differenza tra la vita e la morte. Anche i più esperti possono sbagliare. Ed è in quei momenti che si comprende davvero quanto sia sottile il confine tra successo e tragedia.