“Tsugumi” di Banana
Yoshimoto. Prima di esprimere quello che ho provato nel leggere
questo libro devo sottolineare i ringraziamenti che l'autrice rivolge
al suo traduttore: è proprio vero, cosa sarebbe uno scrittore senza
il lavoro del traduttore; per cui lo ringrazio anch'io, Alessandro Giovanni Gerevini, per
aver messo a disposizione la sua conoscenza affinché si legga questo
libro.
Tsugumi, come spiega la
stessa autrice, è un racconto un po' autobiografico. L'io narrante è
Maria, non la scrittrice, che ricorda la propria cugina molto malata,
Tsugumi, nella quale si identifica Banana, non per la malattia quanto
per il carattere difficile, tagliente nei giudizi e vendicativa
quando le fanno un torto. A causa della sua malattia, non si capisce
quale sia, Tsugumi ha elaborato un carattere molto crudele, vuoi
perché è sempre stata accudita dai familiari, vuoi come risposta
alla sua condizione. La ragazza però è dotata di uno spirito di
osservazione che tanto piace a Maria, che è l'unica a tenerle testa
ed l'unica a cui Tsugumi indirizza una lettera quando si viene a
trovare sul letto di morte. Il libro è ambientato in una cittadina
del Giappone affacciata sul mare, che è un rinomato luogo di vacanze
estive, e proprio l'estate è la stagione in cui si svolgono le
vicende principali del romanzo. Il mare è sempre presente, un mare
tanto caro alla scrittrice che riesce a rievocarmi le vacanze estive
che da piccolo passavo dai nonni in una località, appunto, di mare,
che, come quella della storia di Banana, si riempiva di villeggianti
in estate e si svuotava in inverno. In questa località, non
essendoci molti svaghi, le giornate erano lente, condizionate anche
dal caldo: il bagno la mattina, il pranzo, la pennichella
pomeridiana, seguita da una passeggiata con il nonno durante il
secondo pomeriggio, quando la calura iniziava ad attenuarsi, il rito
dell'asciugatura dei piatti prima di cena ... bei ricordi, non ci si
affannava a cercare di riempire per forza le giornate ... il tempo
scorreva da solo ed io, con gli occhi di ora, mi ci cullo lasciandomi
trasportare. Non avevo paura del "dolce far niente",
condizione che spaventa tanto i bambini di oggi.
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