Ci sono libri che non si limitano a raccontare una storia, ma ci
costringono a confrontarci con domande scomode. "Arancia
Meccanica", pubblicato nel 1962 da Anthony Burgess, è uno di
questi. Il protagonista, Alex, è un quindicenne carismatico e
spietato, che trascorre le notti tra furti, aggressioni e violenze. È
sia repellente che affascinante. Burgess gli affida la narrazione in
prima persona e crea per lui un linguaggio unico, una miscela di
lingue e parole reinventate. Inizialmente disorienta, ma presto
diventa familiare, costringendo il lettore a vedere il mondo
attraverso gli occhi di Alex.
La trama è solo un pretesto. La
domanda sottintesa dall'inizio alla fine: è meglio un uomo libero di
scegliere il male o una creatura incapace di compiere il male perché
privata della propria volontà? Burgess non offre risposte facili. Ci
mette di fronte all'ambiguità della libertà e al costante rischio
che una società possa cercare di sopprimerla in nome dell'ordine.
Dopo l'ennesimo crimine, Alex
finisce in carcere. Qui gli viene proposta la cura Ludovico, una
terapia sperimentale che lo costringe a guardare filmati di violenza
fino a sviluppare un disgusto istintivo per ogni atto aggressivo. Non
si tratta di una guarigione, ma di una manipolazione. Una forma di
violenza più sottile, che si traveste da rieducazione.
"Arancia Meccanica" non è un libro facile. Le scene crude possono disturbare, e il linguaggio inventato richiede un po' di pazienza. Ma è proprio questa sfida che lo rende un'esperienza unica. È un romanzo che interroga, che invita a guardarsi dentro, che mette il lettore di fronte a uno specchio scomodo. Un classico che non invecchia, perché le domande che solleva, sulla libertà, sul potere e sulla manipolazione, rimangono, oggi più che mai, terribilmente attuali.
Anthony Burgess – Arancia Meccanica